Padre Eustazio trascorse la maggior parte della sua vita nella diocesi di Ammochostou dove fu consigliere spirituale, archimandrita e decano. Molti se lo ricordano, molti andavano a confessarsi da lui e tutti quelli che l’hanno conosciuto raccontano di come lasciasse un’impressione molto forte, raccontano di quanto rimanessero affascinati e disarmati dalla grande mitezza e bontà di quest’uomo. Coloro che avevano un’opinione diversa venivano convinti dalla sua mitezza, senza parole, di quale fosse il cammino di Cristo, il cammino del Vangelo.
Vorrei sottolineare che padre Eustazio era un membro molto in vista della Chiesa di Cipro, conosciuto da tutti sull’isola. Godeva di un grandissimo rispetto. La sua presenza e le sue parole creavano un’atmosfera particolare all’interno delle varie riunioni ecclesiastiche.
Nella diocesi di Ammochostou ricopriva il ruolo di vescovo perché il compianto arcivescovo Macario III, per via dei suoi impegni, non poteva essere frequentemente in città, mentre i vari vescovi vicari allora curavano anche la diocesi di Nicosia. Per questo la diocesi di Ammochostou la amministrava padre Eustazio, occupandosi di tutte le questioni amministrative e spirituali in qualità di rappresentante dell’arcivescovo e dell’arcidiocesi. Risolveva sempre le questioni che si presentavano con grande saggezza e mitezza, qualità che erano il suo tratto distintivo.
Ero studente quando conobbi padre Eustazio al monastero di Stavrovouni, dov’ero andato per confessarmi. Vidi padre Eustazio mentre usciva dalla cella del mio padre spirituale: ne avevo sentito parlare a lungo. Lui andava a confessarsi dal padre spirituale del monastero di Stavrovouni.
In seguito iniziai a studiare all’università e conobbi la vita che si conduceva al Monte Athos. Il Signore fece in modo che conoscessi padre Eustazio ancor più da vicino. Dopo la salita alla cattedra arciepiscopale di Cipro di Sua Beatitudine l’arcivescovo Crisostomo, ero andato appunto all’arcivescovado. In quel periodo padre Eustazio iniziava a sentire il desiderio di ritirarsi in monastero e farsi monaco. Venne verso di me (avevo allora solo vent’anni e non avevo nessuna esperienza di vita spirituale) e si mise a farmi domande sul Monte Athos, come un novizio, come un bambino che va a catechismo, su come vivono i monaci là, come pregano, come si vestono, cosa mangiano, quando e quanto dormono. Mi faceva domande una dopo l’altra, come un bambino piccolo che ha sentito parlare dell’Athos per la prima volta e, colpito, vuole saperne di più. Ed io, con l’ispirazione e la semplicità tipiche dei giovani, rispondevo alle sue domande e gli descrivevo la vita all’Athos. Il Signore volle che, come più tardi mi confessò padre Eustazio, questa nostra conversazione influenzò fortemente la sua scelta.
In effetti, se fosse rimasto a Cipro, dopo un po’ di tempo sarebbe senz’altro diventato vescovo, una persona importante nella direzione della Chiesa Cipriota, ma lui decise di staccarsi da queste cose e ritirarsi nel “deserto”. Nel 1979 lasciò i suoi impegni sacerdotali, come si doveva fare, e si ritirò al Monte Athos, a Nuova Scete.
Ero studente, ma vivevo oramai quasi sempre all’Athos e quindi avevo la possibilità di frequentare padre Eustazio molto spesso. Visto che il nostro legame era amichevole e sincero, lui mi confidò i suoi segreti e mi parlò del suo cammino spirituale a Nuova Scete.
Per padre Eustazio, che si mise sotto l’obbedienza di padre Elpidio, fratello di san Filomeno di Cipro, grande importanza aveva la ripetizione della preghiera del cuore. Quando seppe che c’era un monaco da qualche parte all’Athos, un eremita, che ripeteva la preghiera del cuore, andò da lui e con molta accuratezza gli chiese tutti dettagli di questa pratica. Trascorreva ore intere, soprattutto la notte, in preghiera. Con grande diligenza si dedicò a questa pratica.
Quando padre Eustazio venne a conoscenza della preghiera del cuore, questa fu per lui una grandissima scoperta: era una persona buona e devota, un uomo di preghiera. Ma in quel periodo la preghiera del cuore non era conosciuta: i fedeli pregavano in modo diverso e non conoscevano questo tipo di preghiera che si era conservata solamente nei monasteri. Quando padre Eustazio iniziò a pregare così, ne ricevette un’ispirazione straordinaria e, visto che era una persona molto semplice, un’anima di bimbo, ne parlava con un tale trasporto come si può trovare appunto solo nei bambini.
Quando gli raccontavo di qualche mia difficoltà, mi rispondeva sempre: “È una cosa che si risolve con la preghiera: devi pregare; se preghi si risolverà”. Una volta a Nuova Scete, durante la sinassi, i padri non sapevano come risolvere una questione molto importante e c’erano opinioni divergenti, ma quando si rivolsero a padre Eustazio, che nella sinassi rappresentava padre Elpidio, lui rispose in modo molto serio: “È un problema che si risolverà se tutti noi pregheremo con tenacia”.
Aspettavamo una risposta completamente diversa e non ci propose nessuna soluzione, non disse: bisogna fare così o cosà, ma ci indicò la vera strada, cioè, se avessimo imparato a pregare, lo Spirito Santo ci avrebbe illuminato, la pace sarebbe scesa su di noi e avremmo trovato la soluzione giusta alle nostre difficoltà umane.
All’Athos padre Eustazio visse solo quattro anni. Nell’agosto del 1981, a cinquantasette o cinquantotto anni, dopo una grave malattia che lo aveva colpito, Dio lo prese con Sé. Soffriva di diabete: entrò improvvisamente in coma e dopo alcune ore spirò.
Una volta era venuto da me e aveva iniziato a raccontarmi di come lottasse. Inoltre mi chiese, nonostante il fatto che per età avrei potuto essere suo nipote, se stava facendo bene. Ve lo ripeto: era come un bambino.
Una volta mi disse: “Ultimamente, quando prego nella mia cella (bisogna dire che quella cella si trovava in un locale molto buio sotto la chiesa), non capisco cosa succeda e forse tu puoi dirmelo. Tutta la cella si riempie di profumo e spesso si illumina di una luce molto flebile e tenue. Io ho paura: è un’illusione? Chiedi per favore all’igumeno, che mi dica lui: forse sono caduto nell’illusione?”. Quando raccontai ciò all’igumeno, quello mi rispose: “Sarebbe bello anche per noi cadere in un’illusione simile!”.
Quello che ora vi racconterò diventò una notizia in tutta Nuova Scete e nei dintorni.
Una volta era il turno di padre Eustazio di officiare la Liturgia nella chiesa della Scete ed accadde una cosa fenomenale. Là c’è l’abitudine che il giorno della Divina Liturgia il sacerdote che celebra suoni un piccolo campanello (la campana del dikaios). Il dikaios (cioè il responsabile della chiesa) lo sente e va ad aprire la chiesa. Prima entra il sacerdote, poi il dikaios a tempo opportuno prepara la chiesa e solo allora arrivano gli altri per la Liturgia.
Come forse saprete, le porte delle chiese del Monte Athos sono pesanti, dotate di chiavi enormi: per girare la chiave ed aprire la porta bisogna fare molta fatica, talvolta è necessario che vi si mettano due persone con tutte le loro forze per far girare la chiave, visto che le serrature sono molto vecchie. Una serratura così era appunto quella della chiesa principale di Nuova Scete.

Arrivò padre Eustazio e suonò il campanello; arrivò quindi il dikaios, ma padre Eustazio non lo si vedeva da nessuna parte e il dikaios pensò che forse il padre si era allontanato e lo aspettò. Poi però aprì la chiesa che il giorno prima aveva chiuso come d’abitudine con due giri di chiave: vi entrò e vide padre Eustazio con indosso l’epitrachelio che pregava davanti all’icona miracolosa della Madre di Dio “della Tenerezza”.
Il dikaios non se lo aspettava e si spaventò e, dopo essere ritornato in sé, ci fu la seguente conversazione:
“Padre Eustazio, come ha fatto ad entrare in chiesa?”
“Ho suonato il campanello, ho visto che la porta della chiesa era aperta e sono entrato. Intanto che ti spettavo ho deciso di leggere il canone”.
“Cioè: la porta era aperta?”
“Sì”.
“Ma quando sono arrivato io, la porta della chiesa era chiusa a chiave e ho dovuto fare due giri di chiave per aprirla: com’è possibile che fosse aperta?”
“Era spalancata: dall’esterno riuscivo a vedere tutta la chiesa”.
Quando la Divina Liturgia terminò e i monaci si recarono alla sinassi, il dikaios disse loro:
“Oggi alla nostra Scete è avvenuto un fatto molto importante che voglio raccontarvi, ma che non deve sentire padre Eustazio perché lui è arrivato da poco qui, è un monaco nuovo e ha trascorso molti anni nel mondo. Non gli è permesso di ascoltare: quindi, che esca.
Ovviamente il dikaios parlava con voce severa e padre Eustazio, confuso, si scusò cento volte e si allontanò. Quando fu uscito, il dikaios (che allora era il compianto padre Caralampio) raccontò ai monaci l’accaduto.
Come sappiano, questo di entrare in chiesa a porte chiuse, è una cosa raccontata nelle vite dei santi. Molti santi pregavano in chiese chiuse a chiave: la chiesa si apriva e loro vi entravano.
Padre Eustazio ricoprì l’incarico di segretario della sinassi di Nuova Scete per quattro anni e durante questo periodo di tempo non ci fu mai una minima discussione per prendere una decisione: era talmente calmo, pieno di grazia e bontà che nessuno dei monaci aveva desiderio di sollevare una discussione. Con la sua mitezza riusciva sempre ad appianare le increspature, portando dovunque un incredibile spirito di pace.
Quando padre Eustazio lasciò questa vita, chiesero ad un monaco:
“Che cosa puoi dire di padre Eustazio? Era archimandrita nel mondo e trascorse solo quattro anni al Monte Athos. Che cosa pensi di lui?”
E il monaco rispose:
“Quest’uomo realizzò il comandamento di Cristo: Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.
Padre Eustazio fu un vero figlio di Dio con una grande pace nel suo animo.
Vi racconto inoltre un altro fatto molto toccante che mi ha insegnato molto. Come vi ho detto, ho conosciuto padre Eustazio quando lui era archimandrita: aveva tutto a disposizione, aveva autorità grazie alla sua posizione di vicario della diocesi di Ammochostou. Mi diressi verso Nuova Scete, che si trova in una zona isolata del Monte Athos. In basso, all’imbarcadero, incontrai padre Eustazio, con degli abiti molto vecchi, dei veri stracci, sporco da capo a piedi di letame di pecora che portava sulle spalle dentro a dei sacchi per l’orto del suo eremo. Era sudato fradicio per la fatica.
Non appena lo vidi, rimasi turbato e triste, non sapendo cosa fare perché pensavo che a padre Eustazio non avrebbe fatto piacere che lo avevo visto in quelle condizioni penose dopo averlo incontrato in passato con abiti curati e puliti, con un’auto a disposizione, un ufficio, degli aiutanti. Mi fermai e non sapevo cosa fare. Padre Eustazio mi vide, venne immediatamente verso di me e mi disse: “Che cosa c’è? Quello che vedi ora è molto più importante e caro dell’oro che indossavo ad Ammochostou” e si mise a ridere. Poi prese sulle spalle un sacco di letame e iniziammo a risalire insieme verso l’eremo dove abitava. Si trovava a circa settecento gradini dal mare: una salita molto ripida di venti minuti a piedi. Figuratevi, nonostante fossi giovane, ero stanchissimo anche senza sacco in spalla. Padre Eustazio respirava a fatica, tutto sudato e molto stanco, a portare fino là in cima quel peso, mentre prima non solo non faceva questi lavori, ma neppure li aveva mai visti fare.
Però nel suo cuore ardeva un tale amore per Dio che in un breve lasso di tempo diventò un vero padre spirituale dell’Athos. Il suo nome là lo conoscono tutti ed è una delle poche persone che tutti all’unanimità al Monte Athos ritengono santo: nessuno ha il minimo dubbio di ciò.
Traduzione a cura del Monastero del Pantocratore di Arona