+Atanasio di Limassol: San Porfirio di Kafsokalyvia

Vorrei parlarvi, miei cari, di un santo che andò in pace il 2 dicembre, un santo dei nostri giorni, un grande santo, e non vi racconterò solo una storia, ma desidero che comprendiate che tutto ciò che viene insegnato e di cui la Chiesa ci parla, può incarnarsi anche nella vita reale.

Padre Porfirio (questo è il suo nome) si spense nel 1992. Forse avrete già sentito parlare di questo grande uomo. Il Signore mi rese degno di conoscerlo personalmente e di conoscerlo anche abbastanza da vicino: sono stato da lui molte volte e, visto che era un monaco dell’Athos, si spense appunto all’Athos. Anch’io l’ho incontrato là e forse sono stato uno degli ultimi col quale ha parlato… siamo stati al telefono il giorno prima della sua dipartita. Questo padre spirituale, miei cari, è stato una grande apparizione per i nostri tempi: su di lui si sono scritti molti libri sulla base di testimonianze oculari, ma penso che si possano scrivere ancora volumi interi, molti volumi dove si descriveranno diversi fatti testimoniati dalle persone che gli si trovavano vicino e che avevano rapporti con lui. Vi racconterò alcuni fatti della sua vita che ho potuto osservare personalmente o che mi hanno riferito alcune persone che lo conoscevano.

La famiglia di padre Porfirio era originaria dell’Asia Minore, ma lui era nato e cresciuto nei dintorni di Atene. Ancora bambino, aveva letto la vita di san Giovanni il Kalivita, un santo particolare, il quale un giorno decise di lasciare la propria casa, di andarsene e di farsi monaco. Solo dopo parecchi anni decise di ritornare a casa. Tutto ciò avvenne a Roma. I suoi genitori piangevano e si disperavano perché avevano perso il loro unico e carissimo figlio. San Giovanni aveva vissuto con loro per circa trent’anni. I suoi genitori erano persone molto ricche, ma il santo si ritirò in una capanna che loro gli avevano costruito perché l’avevano preso per un povero pezzente. Lui quindi visse in questa capanna nel giardino di casa sua: la servitù lo prendeva in giro, gli lanciavano un po’ di cibo, lo importunavano e lo deridevano, ma lui continuava a vivere là sopportando tutto questo fino alla sua morte. Appena prima di morire, inaspettatamente consegnò ai suoi genitori un Vangelo scritto a mano che gli aveva regalato sua madre. Fu così che si accorsero che era il loro figlio, ma lui oramai era morto. Questo piccolo Vangelo manoscritto di san Giovanni il Kalivita è ancora conservato all’Athos.

Il futuro padre Porfirio, avendo letto questa Vita all’età di dodici/tredici anni, provò nel suo cuore un grande amore verso Cristo e decise anche lui di farsi monaco. A quel tempo non era facile arrivare all’Athos: era un posto tagliato fuori dal mondo. Ci provò due volte ad andarci, ma non gli riuscì. La terza volta, quando arrivò all’Athos, aveva quindici anni. Andò alla Skiti di Kafsokalyvia che si trova sulla punta della penisola dell’Athos, un posto molto isolato e distante da tutto dove si trovano solo rocce. È un posto che conosco perché anch’io ci sono vissuto, alla Nuova Skiti. La Nuova Skiti, Sant’Anna, Katunakia, Kafsokalyvia: sono tutti eremitaggi (chiamati kalivi), cioè delle casette disposte sulle pendici della montagna; là ci sono solo rocce e scogli. Se si vuole raggiungere la casetta di padre Porfirio dal mare, bisogna inerpicarsi per circa quarantacinque minuti ed è una salita molto faticosa. Bisogna essere, diciamo, “allenati” per vivere in posti simili.

Il futuro monaco arrivò là e si mise sotto l’obbedienza di un padre molto buono. All’età di soli diciassette anni era già sotto la completa obbedienza dei suoi padri spirituali, conduceva una vita da monaco molto rigorosa, iniziava a sentire il dono della profezia, della preveggenza, cioè nella sua anima iniziò a presentarsi il dono dello Spirito Santo che gli rivelava gli avvenimenti, sia futuri che passati, ma anche presenti. A diciannove anni si ammalò gravemente ai polmoni e i monaci lo rimandarono nel mondo a curarsi, ad Atene, dove i medici gli impedirono di far ritorno all’Athos. All’età di diciannove/vent’anni fece visita all’arcivescovo del Sanai Porfirio e parlò con lui. Il giovane raccontò all’arcivescovo quello che stava succedendo al suo monastero sul Sinai, anche se là lui non ci era mai stato. Gli descrisse il monastero, gli descrisse ogni singolo monaco, le difficoltà di ognuno e come dovesse comportarsi l’arcivescovo in ogni caso concreto. L’arcivescovo rimase sconvolto e lo ordinò diacono e poi sacerdote dandogli il nome di Porfirio e lo nominò padre spirituale, nonostante la giovane età. Padre Porfirio rimase ad Atene e iniziò ad officiare alla chiesa dell’ospedale atonita su piazza Omonia, ospedale che esiste tuttora. Là c’è la chiesetta di San Gerasimo e padre Porfirio ne divenne il parroco. Da quel giorno a padre Porfirio iniziarono a rivelarsi molti doni di Dio. Ad esempio: venivano da lui dei malati e il padre faceva loro una diagnosi accurata, correggeva addirittura i medici e rivelava quali fossero le malattie. I medici spesso testimoniavano che si erano rivolti al padre perché rivelasse quale fosse la malattia di una persona. Di conseguenza il padre non andò più all’Athos: avrebbe voluto vivere là, ma la sua salute era così debole ed era così malato che non poté farlo. Non appena il padre arrivava al Monte Athos, subito si ammalava e lo dovevano riportare indietro. Poi ci andava di nuovo: avanti e indietro per molte volte, dall’Athos ad Atene e viceversa.

La vita quotidiana del padre non aveva nulla di interessante: era la vita di un sacerdote qualunque. Certamente il padre era una persona di preghiera. Viveva in una roulotte in un bosco alla periferia di Atene. Allora Atene era circondata da boschi: ora sono stati distrutti. E così il padre passava la vita in luoghi isolati ed ogni giorno andava all’ospedale. Alla fine della sua vita, prevedendo la sua morte, il padre scrisse una nota, lasciò Atene per l’Athos e là, a Kafsokalyvia andò in pace il 2 dicembre del 1992. In poche parole, questa è la descrizione della sua vita.

Ora vi racconto alcuni fatti sorprendenti relativi a quest’uomo. Prima di tutto, come lo conobbi. Come vi ho già detto, all’Athos eravamo vicini: io abitavo a Nuova Skiti e lui a Kafsokalyvia. Tutti sapevamo che possedeva dei grandi doni di Dio. Ed ecco, una volta, sapendo che veniva a Kafsokalyvia, avevo deciso di andare a trovarlo. Ero andato da lui la mattina: il padre era seduto sotto un albero e mangiava. Non mi ricordo cosa stesse mangiando: forse stava facendo colazione. Mi avvicinai e lo salutai. “Da dove viene?”. “Da Nuova Skiti”. E poi mi disse: “Padre, non posso più parlare con lei, perché sono ammalato”. Gli risposi: “Va bene, se non può, non lo obbligherò a farlo”. Allora il padre si ritirò nella sua cella e si distese ed io mi allontanai a grande distanza. Allora mi si avvicinò un monaco e mi disse: “A quest’ora il padre si sente sempre male, ma dopo mezzogiorno sta meglio. Aspetti quindi e la riceverà”. Ero andato là in barca e avevo pescato del pesce. Quando quel monaco mi parlò, mi trovavo molto lontano dalla cella del padre, ma non appena ebbe finito di parlarmi, sentimmo un campanello: era il padre che lo suonava quando necessitava di qualcosa. Chiamò quel monaco e gli disse: “Perché hai detto al padre che sto meglio dopo mezzogiorno?”. Era assolutamente impossibile che ci avesse sentiti parlare, visto che ci trovavamo molto lontano da lui. Padre Porfirio proseguì: “Digli di andarsene perché dopo mezzogiorno il tempo peggiorerà e non riuscirà a far ritorno con la barca”. Il monaco ritornò da me, si scusò e mi disse: “Il padre ha capito tutto e ha detto che lei deve tornare indietro: il tempo peggiorerà”. Ma non si vedevano segni particolari che il tempo sarebbe peggiorato però, visto che voleva che me ne andassi, partii. Salii sulla barca e me ne andai. Dopo mezzogiorno il tempo peggiorò davvero: ci fu un acquazzone così forte che non riuscivo più a remare e la barca era in pericolo. Questo fu il mio primo incontro.

Il nostro secondo incontro fu quando l’igumeno si ammalò ed ebbe un attacco di cuore: noi giovani pensavamo che sarebbe morto. Ci prese il panico: l’igumeno sarebbe morto e cosa avremmo dovuto fare noi là nel “deserto”? Il più spaventato ero io: avevo ventitré anni e gli altri erano ancora più giovani di me. Eravamo allora circa venti monaci. Ero andato a Salonicco per delle commissioni e per strada mi imbattei in un monaco che era allievo di padre Porfirio il quale mi disse: “Questo è il telefono del padre: chiamalo che ti deve parlare. Chiamalo alle cinque di mattina: è l’ora in cui risponde al telefono”. Così feci. Feci il numero alle cinque e aspettai, preoccupato di dover svegliare qualcuno e che mi avrebbero sgridato per questo. Aspettavo, aspettavo, ma nessuno rispondeva. Non c’era niente da fare, così mi misi a recitare l’Acatisto alla Madre di Dio. Poi l’avrei richiamato, ma prima avrei pregato perché potessi parlare con lui. Recitai l’Acatisto e, quando arrivai alle ultime preghiere, composi il numero di telefono: facevo il numero mentre stavo ancora pregando. Alla fine dell’Acatisto il padre rispose da Atene. Lui rispose con queste parole: “Gioisci o sposa, non sposata!”. Al telefono pronunciò le parole che io avevo pronunciato mentre pregavo. Poi chiese: “Chi è?”. “Sono padre Atanasio dall’Athos, padre”. “Per cosa chiami?”. “Abbiamo una cosa spiacevole: il nostro igumeno si è ammalato”. E a questo punto, miei cari, padre Porfirio descrisse dettagliatamente la situazione del nostro igumeno, i sintomi della malattia, mi raccontò che cosa gli era capitato e che cosa avrei dovuto fare. Tutto al telefono. Questa fu la nostra conversazione telefonica.

Di seguito gli feci visita molte volte. Avevo un accordo: poco prima della sua morte gli parlai al telefono; fu quando l’igumeno mi aveva convinto ad andare a Cipro, ma io non volevo e cercavo di trovare qualcuno dei monaci che mi sostenesse a dire che io non dovevo andarci a Cipro e a convincere l’igumeno che invece insisteva perché ci andassi. Decisi allora di rivolgermi ai monaci più importanti dicendo che volevo andare a Cipro e se mi avessero risposto che non dovevo andarci avrei avuto un motivo per sostenere: “Vede, padre Porfirio mi ha detto di non andarci”. Telefonai quindi a padre Porfirio e ovviamente mi disse che dovevo andare a Cipro. Tutto quello di cui ho parlato riguarda la mia conoscenza personale di padre Porfirio e il mio rapporto con lui.

Ma vi voglio raccontare anche alcuni fatti che avvennero qui… Non so se qualcuno di voi si ricorda di quella ragazza di Limassol, Maria Grande: era più alta di due metri. Verso la fine della sua vita si era ingobbita, camminava con le stampelle e poi si muoveva su una carrozzella. Era come un mostro e aveva i palmi delle mani enormi. Portava il cinquantasette di scarpe (al monastero ne conservo ancora una): sembravano delle barche. Le mani erano tre volte più grandi delle mie. C’era un monaco, padre Nifone, che prima di entrare in monastero vendeva mele: a quindici/sedici anni andò alla casa dove viveva Maria a vendere le sue mele; aveva due sacchetti di mele e bussò alla porta. Gli aprì Maria: gli apparve un vero mostro. Dalla paura, gettò le mele e scappò via. Ma quella ragazza, miei cari, era una santa, una vera santa e, nonostante il suo aspetto fisico fosse come quello di un mostro, i bambini non avevano affatto paura di lei. Riusciva a consolare molte persone: era infatti come una madre spirituale nel vero senso della parola.

Crescendo con l’età era diventata sempre più alta e alla fine raggiunse circa due metri e quaranta di statura. All’ospedale avevano dovuto unire due letti per farla stendere e quando morì la sua bara era incredibilmente enorme. L’avevano invitata in America per condurre su di lei degli esperimenti e capire perché fosse diventata così. Maria aveva un tumore al cervello e le avevano detto che questo tumore avrebbe fatto pressione sugli occhi tanto che avrebbe perso la vista diventando cieca. Maria si era ovviamente spaventata ed era andata in America col viaggio pagato dallo stato per sottoporsi agli esperimenti e poter conservare la vista. Per il resto stava bene. In America alcuni famosi dottori si riunirono, si consultarono e decisero che si trattava di gigantismo, altri espressero opinioni diverse, però nessuno riuscì a dire con certezza che cosa aveva avuto Maria e perché era diventata così grande. I dottori proposero di acquistare il suo scheletro a fini di ricerca medica perché per loro lei era un fenomeno, ma lei, sentito ciò, si rattristò molto. Con questo umore ritornò ad Atene da Boston. Una sua amica le propose: “Perché non andiamo da padre Porfirio a Penteli?”. Maria, che non aveva affatto idea di chi fosse un padre spirituale le rispose: “Lasciami in pace: sono già andata in America dagli scienziati: che cosa potrebbe dirmi quel vecchietto?”. “Ma dai: andiamoci, è cieco e non parla neppure bene”. Maria rispose: “Tanto peggio: se è cieco e non parla neppure bene, perché dovremmo andarci? Ad ascoltare come balbetta?”. Così pensava Maria provando solo disperazione. Alla fine si fece convincere e andò dal “vecchietto”: la accompagnò sua madre (la signora Costanza, che è ancora viva), una monaca ed alcune persone. Arrivarono da padre Porfirio ed entrarono nella sua cella: a quel tempo lui era già cieco. Non appena entrati disse a Maria: “Ti ha convinto la tua amica? Perché non volevi venire? Forse perché balbetto?”. Il padre pronunciò esattamente le parole che aveva detto Maria. Lei era turbata e non capiva. Il padre le chiese: “Che cos’hai?”. Lei piangendo rispose: “Padre, sto perdendo la vista”. “La vista non la perderai, mia cara, ma ti si spezzeranno le ossa”. “Ma no, padre, le mie ossa sono sane, tutte a posto. Perdo la vista”. “Non la vita, le ossa”. Per la terza volta Maria disse: “Padre, la vista”. “Mia cara, non la vista, ma le tue ossa si distruggeranno”, ma lei non lo capì. Il padre le chiese di mettersi in ginocchio: lei si mise in ginocchio, lui le pose la mano sul capo e iniziò a pregare. Come mi disse in seguito Maria stessa, sentì come se tutto bollisse dentro alla sua testa. Poi il padre le disse: “La vista non la perderai, ma le tue ossa si sbricioleranno e spunteranno fuori”. Lei non ci credeva: “I medici però mi hanno detto che le mie ossa sono sane”. Il padre le chiese: “Cosa ti è capitato che sei diventata così? Te l’hanno spiegato i dottori?”. “Padre, non hanno trovato la causa: dicevano che è gigantismo, ma la causa non l’hanno trovata”. Allora il padre chiese alla madre di Maria: “Ti ricordi di quando eri incinta di Maria?”. A quel tempo Maria aveva già quarantatré anni e quindi la povera mamma Costanza, che non era più giovane, rispose: “Sì, mi ricordo, padre, mi ricordo”. “Ti ricordi di quando al secondo mese di gravidanza ti veniva spesso da vomitare?”. “Mi ricordo vagamente, padre”. “Ti ricordi che tuo marito ti portò dal dottore?”. “Come faccio a ricordarmi ora del dottore?”. Allora il padre iniziò a raccontarle tutto in ordine: “Ti ricordi che siete andati in autobus dal tuo paesino, che siete scesi alla fermata” e poi il padre cieco descrisse com’era la fermata quarantadue anni fa. “Poi tuo marito ti accompagnava su quella… strada” e il padre descrisse la strada e allora Costanza si ricordò. “Tuo marito ti ha accompagnata allo studio del dottore che aveva una porta verde e sei entrata: ti ricordi?”. “Sì, mi ricordo”. “Gli hai detto che ti veniva spesso da vomitare perché eri incinta e ti ha dato delle pastiglie, una scatoletta con quindici pastiglie, ti ricordi?”. “Mi ricordo, padre”. “Ecco, si trattava di pastiglie contro l’epilessia; il dottore si era sbagliato e ti aveva dato delle pastiglie per curare l’epilessia. Le hai prese e il feto ha iniziato a deformarsi e quindi ti è nata una figlia così”. Poi hanno raccontato questi fatti ad uno scienziato che ha confermato. Cos’è capitato poi? Maria non ha perso la vista, ma le ossa hanno iniziato a sbriciolarsi. Una volta, davanti a me, un osso ha bucato la pelle ed è uscito. Le sue ossa iniziarono a distruggersi, a polverizzarsi, come aveva previsto il padre. Quando Maria uscì dalla cella, il padre disse: “Lei è una santa”.

Vi racconto un’altra storia. L’ho saputa dal protagonista della storia stessa l’anno scorso quand’ero ad Atene. Una ricca signora, una fedele di padre Porfirio, aveva un figlio che si era innamorato di una ragazza di Atene. Il ragazzo non andava in chiesa e non credeva né ai sacerdoti né a tutto quello che era legato alla Chiesa. Era innamorato della sua ragazza, ma a sua madre lei non piaceva, non so perché, ma non le piaceva. Alla fine la donna chiese al padre: “Padre, quella ragazza va bene per mio figlio?”. Il padre rispose: “No, non va bene, mia cara”. “E come faccio a convincerlo?”. Il padre rispose: “Digli di venire da me che parliamo”. La madre lo disse al figlio, ma lui non voleva andare. “Andare dove? Da un vecchietto? Che mi deve dire cosa?” Così il ragazzo non ci andò. Faceva il poliziotto e aveva molti soldi. Decise di andare a Londra con la sua ragazza per farle la proposta di matrimonio. Il ragazzo dichiarò ai genitori che si sarebbe sposato con lei anche se loro fossero stati contrari. “Ho deciso: la sposo e voi fate quello che volete”. La madre lo raccontò a padre Porfirio il quale le disse: “Va bene, digli che almeno ora, prima di andare a Londra, mi chiami al telefono così gli do la mia benedizione per il fidanzamento. Digli: figlio mio, sono d’accordo al vostro matrimonio a patto che telefoni al padre”. La signora gli diede il numero di telefono del padre dicendogli (e questo me lo ha raccontato il ragazzo stesso): “Va bene, prendila pure in moglie visto che la ami, ma ad una condizione: prima di farle la proposta di matrimonio, prima del vostro fidanzamento, telefona al padre e chiedi la sua benedizione. Se farai così, da parte nostra non ci sarà nulla in contrario: sposala pure e ti lasceremo tutto in eredità”. Il figlio rispose: “Se è solo questo il problema, gli telefono”. Andò a Londra, entrò nella camera dell’albergo con la sua ragazza, poi scese alla reception e chiese di telefonare. Alla ragazza non aveva ancora detto nulla sulle sue intenzioni e del fatto che avrebbe dovuto chiamare padre Porfirio perché si vergognava. E cos’avrebbe dovuto dirle? Lei d’altronde non avrebbe capito. Quindi, chiamò il padre e gli disse: “Padre, sono Demetrio, volevo chiedere la sua benedizione”. Il padre gli rispose: “Aspetta un attimo, non riattaccare”. Dall’altra parte delle linea si sentì come un fischio e fu messo in comunicazione con il numero della sua camera. Figuratevi: in un albergo di trecento camere! Viene messo in comunicazione proprio col numero della sua camera dove c’era la sua ragazza e sente che lei sta parlando col suo amico di Atene e gli dice: “Siamo arrivati oggi a Londra e mi ha detto che mi vuole sposare, così ci finanziamo. Poi lo spremo bene, gli prendo tutti i suoi soldi e ritorno da te perché io amo solo te” e altre cose del genere. Il ragazzo, sbalordito, aveva ascoltato la conversazione della sua ragazza col suo amico. Dopo aver ascoltato ciò, di nuovo sentì come un fischio nel telefono e poi di nuovo il padre: “Cosa vuoi, mio caro?”. “Nulla padre: mi dia la benedizione”, rispose riattaccando. Così troncò quella relazione che lo avrebbe portato all’infelicità.

Ora un’altra storia. Una volta, le monache del monastero che si trova vicino a Salamina, vicino ad Atene si recarono a far visita al monastero femminile di San Giovanni il Teologo ad Arta e ci andarono in autobus: una quarantina di monache. Sulla strada del ritorno passarono per Atene per ricevere la benedizione di padre Porfirio. Visto che faceva già buio, l’igumena disse: “Sorelle, il padre ci dà la benedizione e ripartiamo subito, non tratteniamoci, non mettiamoci a parlare, baciamogli la mano e ripartiamo che è già tardi e non sappiamo a che ora arriveremo al monastero. Da Atene al monastero ci sono ancora quattro ore, se il traffico è scorrevole, o cinque se c’è traffico. Se viaggiamo di notte, non arriviamo in tempo”. Andarono tutte dal padre. Il padre si rallegrò che tante monache fossero andate a trovarlo e disse loro: “Accomodatevi”. Nulla da fare: per gentilezza si sedettero e il padre iniziò una lunga conversazione con loro. L’igumena stava seduta, ma pensava tra sé: “Madre di Dio, cosa devo fare?”. Guardava l’orologio e il tempo passava. Poi disse: “Padre, mi scusi”. E il padre: “Aspetti, per favore”. “Padre, è ora che ce ne andiamo”. “Non abbiate fretta, non abbiate fretta”. “Padre, l’autobus ci aspetta”. “Fate in tempo, fate in tempo”. L’igumena poi mi ha raccontato: “Ho aspettato e aspettato, guardavo l’orologio, stavo seduta come su dei carboni ardenti. Ma alla fine non si trattenne più, preoccupata, e alzandosi gli: “Padre, ci scusi, ma dobbiamo andare”. Il padre rispose: “Che cosa c’è che ti preoccupi tanto? Vuoi andar via? Va bene, andate via”. Le monache ricevettero la benedizione e corsero all’autobus. Ebbero solo il tempo di prendere posto perché l’autobus avrebbe dovuto ripartire subito. L’ultima monaca che si era intrattenuta col padre mentre correva gridò: “Il padre chiede dell’igumena”. Niente da fare: l’igumena scese dall’autobus, corse dal padre e gli chiese: “Cosa succede, padre?”. E lui: “Sai, abbiamo aperto un stazione radio per la chiesa e vi trasmettono dei bei programmi. Siediti: la accendo e te la faccio ascoltare. Lei si sedette, il padre pigiò un pulsante della radio e le fece ascoltare una trasmissione da una chiesa del Pireo. Per poco lei non impazziva. Perdendo alla fine la pazienza, l’igumena sbottò: “Padre, per favore, devo andare. Non posso più restare!”. “Ma mia cara, ma non fare così. Fai in tempo”. Il padre sorrise e proseguì: “Fai in tempo, fai in tempo. Non gridare”. Mi ha raccontato l’igumena che guardava l’orologio e il tempo passava: 19.30, 19.40, 19.45, 19.50… “Madre di Dio: a che ora arriveremo al monastero? Alle due di notte?” si lamentava. “Sono uscita dalla sua cella alle 20.10 perché mi ricordo che ho guardato l’orologio”. Era pronta a partire quando il padre le disse: “C’è qui una ragazza, non la portereste fino ad Atene?”. L’igumena mi ha poi raccontato che in quel momento ha pensato: “Ci mancava solo che dovessimo passare anche per il centro di Atene! A che ora ne usciremo?”. Ma visto che glielo aveva chiesto il padre, per gentilezza rispose: “Certo, la portiamo noi, cosa possiamo farci?”. Così partirono dal padre alle 20.10 e fecero salire anche la ragazza. All’entrata di Atene si trovarono in un ingorgo e in più l’autista doveva far rifornimento all’autobus. Alla fine arrivarono al monastero e, secondo i loro calcoli, avevano viaggiato per cinque ore. Inoltre sull’autobus c’erano anche monache di Arta che avevano preso con loro: in tutto erano cinquanta persone. Durante il viaggio l’igumena era preoccupata e diceva: “Arriviamo al monastero alle due di notte: chi ci aprirà? Come faremo?”. Ma quando arrivarono, per cause inspiegabili, il monastero era illuminato e una monaca disse all’ingresso: “Entrate”. L’igumena di arrabbiò che a quell’ora di notte le monache non dormissero ancora. Avrebbe voluto sgridarle, ma aveva vergogna per le altre che erano con loro. Disse alle ospiti: “Benvenute” e si radunarono tutte le monache. L’igumena chiese loro: “Perché a quest’ora non dormite ancora? Non avete vergogna davanti alle ospiti? È tardi ormai”. Si accomodarono nella sala per rifocillare le ospiti e l’igumena disse tra sé: “Cosa stanno facendo? Sono tutte impazzite? Perché ci hanno aspettate che è così tardi?”. Poi disse: “Su, mangiamo! Vi aspettavamo”. E lei: “Cosa sta succedendo? Ci avete aspettate per mangiare fino alle due di notte?”. Le monache si guardarono senza capire: “Cosa sta dicendo l’igumena?”. “Cosa sto dicendo? Come si fa a rimanere con la fame per così tanto tempo? Ci avete aspettate che arrivassimo fino a tarda notte: che ore sono?”. Guardò l’orologio: erano le 20.20. Come può capitare una cosa simile, miei cari? Siete in grado di spiegarlo? In dieci minuti avevano percorso una distanza di cinque ore. D’accordo se fosse stata sola, si sarebbe potuto dire che si era confusa e che stava dicendo sciocchezze, ma l’autobus era al completo. Ce lo ha raccontato la stessa igumena che viaggiava su quell’autobus. Com’è stato possibile? Il giorno successivo le telefonò il padre e le chiese: “Ha lasciato il monastero aperto?”.

Prima di questo fatto, l’igumena aveva subito un’operazione al cuore perché aveva avuto dei problemi cardiaci e fu allora che conobbe padre Porfirio, prima non lo conosceva. Ritornò dopo l’operazione e la sera andò alla funzione della notte e, visto che cantava molto bene, le monache cercavano di convincerla: “Canti, igumena”. Le diedero ispirazione e quindi cantò, ma, arrivata a “Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale” quando bisognava sforzare la voce e prendere una nota molto alta, cantò come fanno di solito le donne che hanno un tono molto alto (e lei aveva anche una voce molto potente). Sforzò la voce, cantò molto forte, ma sentì come se qualcosa si fosse spezzato dentro di sé e capì che probabilmente aveva fatto un danno. Allora non conosceva padre Porfirio e neppure lui conosceva lei. Alla fine della Liturgia, l’igumena andò nella sua cella. Alle quattro di mattina squilla il telefono: lei risponde pensando a chi potesse chiamare a quell’ora e rispondendo sente una voce che dice: “Sono padre Porfirio da Atene, da Oropo”. “Piacere, padre”. Certamente aveva sentito parlare di lui prima. E lui proseguì: “Mia cara, ma come hai cantato Immortale? Sei stata operata da poco! Per fortuna ti ha ascoltata l’Immortale e ti ha salvata dalla morte perché hai cantato così forte che avresti potuto morire sul posto”. L’igumena rimase completamente confusa: come lo aveva saputo il padre, dove lo aveva sentito?

Ecco ancora due fatti che avvennero ad Atene. Un mio amico sacerdote, ieromonaco, una sera mentre pregava (soltanto non spaventatevi di quello che vi racconterò) sentì dei passi nel corridoio dell’eremo in cui viveva: all’improvviso si aprì la porta ed entrò satana. E via: afferrò il monaco per la gola, lo scaraventò a terra e iniziò tra i due una lotta. Alla fine della tentazione, colpì il monaco al petto. La mattina il sacerdote non raccontò l’accaduto a nessuno, ma il telefono si mise a squillare, di nuovo era padre Porfirio, neanche allora si conoscevano. Padre Porfirio gli dice: “Ce l’hai fatta ieri sera, ma per quel colpo devi pagarla”. Il monaco chiede: “Chi è?”. “Sono padre Porfirio”. “In che senso devo pagarla, padre?”. Padre Porfirio gli risponde: “Dovrai prendere un sacco di medicine”. E infatti, dopo non molto tempo, il monaco iniziò a sputare sangue, si ammalò di tubercolosi e capite anche voi quante medicine devono prendere quelli che hanno questa malattia.

L’altro fatto avvenne da noi alla skiti. C’era un tale padre Gioachino che prima nel mondo era stato archimandrita. Aveva letto moltissimi libri sulla lotta spirituale ed era arrivato al Monte Athos, ma non aveva esperienza di vita monastica, anche se era stato un buon archimandrita, ma non era stato monaco. Aveva portato molti libri: leggeva e sperava che con la lettura sarebbe diventato un bravo eremita. Si chiudeva in camera e cercava di imitare gli eremiti. Padre Porfirio, che l’aveva “visto” da Atene, gli mandò una persona per dirgli: “Smettila di rinchiuderti in camera: non puoi continuare così. Esci, lavora nell’orto, bagna i fori e le piante”.

Un’igumena serba mi raccontò che una volta telefonò al monastero padre Porfirio, anche se non si conoscessero. Era ancora all’epoca del comunismo. Così, telefonò e disse all’igumena: “Madre, questa sera vi hanno gettato del veleno nel pozzo per farvi morire tutte, per far avvelenare tutte le monache. Non bevete l’acqua di quel pozzo che è avvelenata, ma iniziate a scavarne uno nuovo”.

Nel 1979 avevamo accolto un monaco cattolico, un italiano, che era venuto all’Athos. Parlava benissimo il greco e rimase con noi per sei mesi. Una volta, andando ad Atene, lo avevo portato con me da padre Porfirio. Entrammo da lui, il padre era cieco e nessuno gli aveva detto di quel monaco, né che fosse cattolico, né che fosse italiano. Parlava molto bene il greco e portava un abito come il mio: non si sarebbe potuto capire che era un cattolico. Anche gli altri monaci all’Athos non sapevano che era un monaco cattolico italiano (non ne avevamo parlato con nessuno per non creare problemi: all’Athos la situazione era tesa e i cattolici avevano difficoltà a muoversi). Il padre entrò nella stanza e iniziò a descrivere quel monaco, poi chiese: “E come si chiama il tuo monastero?”. “Di San Giovanni Teologo”. Allora il padre descrisse nei dettagli quel monastero che si trovava in Italia dicendo anche che là c’era dell’acqua e a che profondità

La vita del padre fu piena di miracoli simili: il padre descriveva fatti che erano capitati mille anni prima. Mi ricordo della visita che fece al monastero della Santissima Trinità di Tebe: arriva e dice alle monache: “Qui tremila e cinquecento anni fa c’era un tempio dedicato ad Apollo e a… metri di profondità sotto la chiesa si trovano i resti di questo tempio, quindi, se dovete costruire, non chiamate nessuno dell’intendenza archeologica altrimenti inizieranno a scavare, a trovare i resti e vi fermano i lavori”. Le monache risposero: “Qui non c’è nessun resto archeologico e non abbiamo visto nulla”. Dopo il terremoto di Atene, dovettero iniziare i lavori di restauro e quando scavarono le fondamenta vi trovarono i resti dei quali aveva parlato il padre.

Un uomo ricco, il signor Vasos, aveva comprato un terreno ad Atene sulla riva del mare e lo aveva detto al padre il quale aveva risposto: “La terra l’hai comprata, ma è piena di tombe”. Il signor Vasos pensava che il padre fosse pazzo: “Tombe sulla riva del mare?”. “Sì, sulla riva del mare”. “Sulla riva del mare?”. “Ti dico di sì: sulla riva”. “Ma tombe sulla riva del mare?”. “Esatto: sulla riva”. “Non c’è nessuna tomba là”. “Va bene: cerca e le troverai”. Quando quell’uomo iniziò a costruire la sua casa, vi trovò undici tombe antiche, pre-cristiane.

Un figlio spirituale del padre lavorava ad Atene alla NASA. Vi ricorderete che una navicella spaziale era stata inviata nello spazio e che non riuscivano in nessun modo a farla rientrare sulla Terra. Allora organizzarono un incontro internazionale dove si erano trovati i più importanti scienziati del settore per decidere come far rientrare la navicella. Quel figlio spirituale, prima di andare in America, informò il padre per ricevere la sua benedizione: doveva andare in America visto che c’era stato un problema. “Che problema?” chiese il padre. “La navicella spaziale non riesce a rientrare”. “Cosa gli è successo che non riesce a rientrare?”. “Non rientra, padre, tutto qui”. “Aspetta, studiamo un po’, guardiamo”. Questo lo ha raccontato una persona che se ne intende di navicelle spaziali. “Studiamola un po’ per un paio di minuti” disse il padre e si mise a descrivere nei dettagli la navicella e il punto dove si era creato il problema. “Ecco dov’è il malfunzionamento”. “E come facciamo a ripararla?”. Il padre spiegò come fosse possibile correggere il malfunzionamento e poi disse: “Quando sarai là alla riunione, non parlare per primo, lascia che parlino gli altri, tanto non la trovano la soluzione, nessuno lo può capire cos’è successo. Inizieranno ad esporre le loro teorie e tu parlerai per ultimo e riceverai pure un premio”. Il figlio spirituale del padre si recò in America, ma là chi avrebbe dato attenzione ad un greco? I greci non avrebbero certo trovato una risposta visto che osservano ancora lo spazio con i binocoli invece che con i telescopi. Dopo che tutti gli scienziati che avevano progettato la navicella ebbero parlato, ma senza trovare una risposta al problema, il greco pensò: “Quindi ora devo parlare io: ma se quello che dirò non è vero? Si metteranno a ridere, visto che ad Atene non ne abbiamo di navicelle spaziali”. Si era convinto che gli scienziati non avevano scoperto quale fosse il problema e disse timidamente: “Sapete, mi sembra che il problema sia questo…” e si mise ad esporre le sue idee. Gli risposero: “Non può essere così”. Allora lui disse: “Provate a fare così”. Fecero esattamente come aveva detto il padre: ovviamente non aveva detto chi in realtà avesse trovato la soluzione al problema, ma parlò solo di una persona molto anziana. Gli scienziati fecero quello che aveva detto padre Porfirio e immediatamente ristabilirono il contatto con la navicella spaziale e riuscirono a farla ritornare sulla Terra.

Di fatti stupefacenti come questo ce ne sono stati molti, se ne sono scritti volumi interi. Non so se avete letto i libri su padre Porfirio con le testimonianze delle persone che hanno vissuto queste esperienze, che hanno visto tutto ciò.  Ora vi racconto solo quei fatti che mi vengono subito in mente, ma di miracoli ne sono accaduti non solamente durante la sua vita.

Una signora dall’Australia telefonava ogni tanto a padre Porfirio ad Atene, non sapendo che lui fosse già morto al Monte Athos. Il padre rispose al telefono e la signora si mise a parlare con lui descrivendogli il suo problema. Il padre le rispose, risolse il problema come lei voleva: parlarono una ventina di minuti e alla fine della conversazione la signora chiese: “Padre, posso poi richiamarla così le dico cos’è successo?”. “No, non serve che mi richiami”. “Ma padre, perché?”. “Mia cara, non sono più sulla terra, sono già morto, sono in cielo e non serve che mi telefoni”. La signora non ci credeva e pensava che gli fosse successo qualcosa, forse un problema di memoria dovuto alla vecchiaia o forse che aveva voluto scherzare. Comunque, riattaccò e richiamò il giorno successivo. Rimase in attesa a lungo e alla fine rispose una monaca che viveva in quel monastero alla quale la signora disse: “Vorrei parlare col padre”. “Ma non sa cos’è successo?”. “Cos’è successo?”. “Son già quaranta giorni che il padre è morto”. “Davvero?”. “Certamente! È morto, è morto all’Athos, gli hanno già fatto il funerale. Questo è tutto: è morto”. Allora la signora disse: “Ma se io gli ho parlato al telefono ieri sera!”. “Non so con chi lei abbia parlato, ma il padre è morto e sono già passati quaranta giorni”.

E di miracoli simili ce ne sono stati molti, miei cari! Certo qualcuno potrà dire: a cosa serve parlarne? È che tutti questi fatti testimoniano che la Chiesa non è una teoria e neppure una filosofia, ma è realtà e tutto ciò che ci dice Cristo nel Vangelo è reale. Questi miracoli li compì non solo padre Porfirio, ma anche molti altri santi, come padre Paisio, padre Sofronio, padre Giacobbe e molti altri santi che ho conosciuto. Anche loro ho conosciuto ed è stato stupefacente. Li vedi, guardi quello che fanno e non riesci a credere a quello che capita. Se si fanno delle ricerche sulla vita di queste persone si può vedere che tutti hanno un punto in comune importante, un doppio punto d’incontro: prima di tutto hanno molto amato Dio e di conseguenza hanno molto amato il prossimo e in secondo luogo possedevano una grande umiltà. Padre Porfirio quando raccontava dei suoi doni (perché lo sapeva e ne parlava del fatto che fossero doni di Dio e non lo nascondeva), era molto semplice e addirittura scherzava su questo argomento. Quando si trovava in qualche villaggio, spiegava agli abitanti dove si trovava l’acqua. Il padre stesso raccontava: “Ti dico che è nel villaggio l’acqua: cerca nel tuo campo, in quel posto, a tale profondità e troverai acqua sorgiva. Iniziano a scavare e la trovano. Perché parlo loro dell’acqua? Perché dopo che l’anno trovata mi credono anche su quello che ho loro detto di Dio. Posso poi parlare con loro di cose spirituali e mi daranno retta”. Molti venivano dal padre a chiedere: “Padre, nel mio campo c’è acqua?”. E il povero padre rispondeva loro: “Sono forse una trivella io? Come faccio a sapere se là c’è acqua?” Così scherzava con loro. Il padre diceva che questo dono lo aveva ricevuto perché aveva completamente mortificato il proprio “io” davanti a Dio. Non aveva una sua propria volontà. Nonostante il fatto che il padre avesse un così forte desiderio di vivere all’Athos, il Signore lo aveva in qualche modo spinto via dall’Athos e lo aveva fatto vivere a piazza Omonia, proprio nel centro di Atene. Fu là che visse. Ora provate ad immaginarvi il silenzio del Monte Athos, quel “deserto”, quella tranquillità infinita. Ve lo dico per esperienza personale, miei cari: eravamo circa venti monaci e abitavamo in un eremo, nel “deserto”. La Liturgia la officiavamo là; la nostra chiesa era piccolissima: appena due metri per due e mezzo di larghezza; quando eravamo in chiesa, riuscivamo a toccare entrambe le pareti con le braccia; era molto stretta (in origine era una veranda che avevamo trasformato in chiesa e vi celebravamo). Una volta era venuto a trovarci un ospite e si era messo a cercarci, mentre noi eravamo tutti in chiesa, officiavamo la Liturgia e cantavamo. Lui camminava nel corridoio e si lamentava: “Ma dove siete?”. Non ci sentiva: cantavamo a voce bassa, quasi sussurrando, era la nostra tradizione monastica. La Liturgia si poteva a malapena sentire. Faceva così anche il padre quando si trovava al Monte Athos. Mentre quando andò ad Atene e iniziò ad officiare all’ospedale, là invece c’era un negozio di dischi e il povero proprietario di quel negozio per pubblicizzare le canzoni, suonava i dischi ad un volume tale che si sentiva anche in chiesa e copriva la Liturgia. Il padre diceva: “Non riuscivo, proprio non riuscivo ad officiare perché si sentivano canzoni in continuazione. Pensavo: cosa devo fare?”. Gli venne in mente di concentrarsi, di pregare con tutte le sue forze. Imparò a pregare con tutta la forza dell’anima. Il padre raccontava: una volta, mentre stava leggendo il brano del Vangelo sulla Passione del Signore, all’improvviso gridò e perse i sensi: i presenti corsero per farlo rinvenire. La causa era stata che durante la lettura di quel Vangelo vide davanti a sé le pene del Signore, vide come crocifissero Cristo, come lo inchiodarono alla croce e, non riuscendo a sopportare tutto ciò, perse i sensi.

Il padre “vide” come i turchi invasero Cipro ancor prima che lo trasmettessero alla radio. Una sera stavano viaggiando all’Athos da Atene (lo hanno raccontato delle persone che si trovavano con lui in auto) e alle cinque di mattina disse: “I turchi stanno sbarcando a Cipro”. “Padre, ma cosa sta dicendo?”. Accesero la radio, ma niente, solo musica. E il padre di nuovo: “Ecco, ora i turchi invadono Cipro” e si mise a descrivere Kyrenia: “Sulla costa attracca la prima nave, scende il primo carrarmato, sbarcano i soldati, inizia la guerra. Svelto, ritorniamo ad Atene!”. Ritornarono ad Atene e dopo un paio d’ore sentirono il comunicato dell’attacco turco a Cipro.

All’epoca di Ceaușescu ci fu una rivolta studentesca a Bucarest e gli studenti furono tutti uccisi: non so se vi ricordate. Ecco, il padre “vide” quello che stava capitando e descrisse tutto nei dettagli.

Una volta il padre telefonò ad una famiglia in Sud Africa a Johannesburg e disse: “Sotto casa vostra stanno mettendo i cavi dell’alta tensione, quindi andatevene, altrimenti vi ammalerete di cancro”. Quelli si meravigliarono molto e chiesero: “Ma lei chi è? E da dove chiama?”. Lui ripose: “Lei è la signora…?”. “Sì”. “Io la sto chiamando da Atene, mi chiamo padre Porfirio”. “Da Atene? Come fai a conoscere la nostra casa a Johannesburg?”. Non aveva il loro numero di telefono, non li conosceva e neppure loro conoscevano lui. Semplicemente aveva questo dono incredibile.

Oltre alle storie che vi ho raccontato, voglio raccontarvi quello col quale ho iniziato: la Chiesa Ortodossa guarisce le persone, opera in loro e fa rinascere le forze che Dio ha dato all’uomo, tutti i doni che ci ha dato Dio quando ci ha creati. La Chiesa vivifica tutto ciò in Dio e per questo affermo che la Chiesa non ha nulla a che fare né con la filosofia, né con le diverse teorie, né con la moralizzazione. La Chiesa opera un’azione di guarigione, come un medico per l’uomo. I santi ne sono la prova. Miei cari, se non avessimo i santi, tutti quelli che sono nella Chiesa sarebbero dei pazzi. Immaginatevi: ascoltare la Chiesa che insegna cose che non hanno prove. Saremmo degli stupidi e dei pazzi se seguissimo il Vangelo senza avere prove del fatto che insegna la Verità. E dove sono queste prove? Certo, racconta delle belle cose, sagge. Ma a cosa serve la saggezza all’uomo se non ha le prove della Verità. Solo i santi incarnano e confermano il Vangelo con la loro vita, miei cari, solo i santi. Quando avevo diciott’anni, feci visita a padre Paisio per la prima volta. Non appena vidi quell’uomo, nel mio animo nacque la certezza: tutto ciò che disse Cristo è vero. È come se lo sentissi, perché davanti a me vedevo un uomo di Dio, un sant’uomo: infatti padre Paisio era così come padre Porfirio. Anche lui aveva ricevuto molti doni da Dio ed aveva compiuto molti miracoli.

Scusatemi se vi ho stancati col mio monologo, ma sono cose molto importanti. Quando pregate, chiedete nella preghiera a questo sant’uomo sostegno. È vissuto ai nostri giorni, miei cari! Tutti coloro che lo hanno conosciuto sono nostri contemporanei. Padre Porfirio può intercedere grandemente presso Dio e ha, penso, un grande potere. Nel giorno della sua memoria, c’è un buon motivo per ricordarlo, per leggere un libro su di lui. Ci sono molte registrazioni con le sue parole: potete ascoltarle. Ma prima di tutto leggete per vedere come visse quest’uomo di Dio.

Traduzione alla cura del Monastero del Pantocratore di Arona

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