Gheronda Giuseppe di Vatopedi (1921 – 1 luglio 2009)


Il beato starets Giuseppe di Vatopedi nacque sull’isola di Cipro in una numerosa famiglia contadina. Sua madre, Eugenia, partorì prematuramente nel giorno della memoria dei santi Anargiri (Santi Medici), nel cortile del monastero dedicato a questi santi, dove si era recata per pregare per un parto sereno. In un primo momento credette che il bambino fosse morto, ma egli sopravvisse miracolosamente. Tutta la vita del padre Giuseppe fu sotto la benedizione dei santi Anargiri.

Il piccolo fu chiamato Socrate al battesimo. Completò i primi anni della scuola elementare e a sedici anni intraprese la via monastica nel monastero di Stavrovouni, uno dei più antichi di Cipro, dove visse fino al 1945. In quel periodo ricevette la tonsura nel piccolo abito monastico (rasoforo) con il nome di Sofronio.

All’età di 25 anni si recò al Monte Athos, dove, dopo due anni di ricerca spirituale, incontrò il grande asceta e starets Giuseppe l’Esicasta, che divenne suo padre spirituale. All’epoca, la fraternità del padre Giuseppe viveva nelle grotte dello skit di sant’Anna.

Così scrive del futuro starets Giuseppe di Vatopedi un altro discepolo di san Giuseppe l’Esicasta, l’archimandrita Efrem (Moraitis):

«Era l’estate del 1947, quando il giovane monaco Giuseppe, dall’isola di Cipro, venne al Monte Santo per un pellegrinaggio e per beneficio spirituale. Per Provvidenza di Dio, conobbe lo starets Giuseppe. Il giovane monaco riconobbe la santità del vecchio e gli chiese il permesso di restare con lui come suo discepolo. Ma il padre Giuseppe rispose: “Né questo luogo, né il nostro modo di vita ci permettono di accogliere un altro.” Tuttavia, il padre Giuseppe continuò a insistere. Allora il vecchio disse che avrebbe pregato e fatto secondo l’illuminazione di Dio. Il giorno seguente accettò di accoglierlo, e padre Giuseppe divenne suo discepolo con grande gioia.

All’inizio gli pesavano molto le fatiche quotidiane, le privazioni, le condizioni dure, la mancanza di vestiti. Ma il suo fervore giovanile e la grazia di Dio non solo rendevano il possibile impossibile, ma gli donavano anche gioia in mezzo agli sforzi ascetici.

A causa della povertà degli anni del dopoguerra, lo starets non poteva provvedere nemmeno al necessario per il padre Giuseppe. I lavori artigianali che normalmente sostenevano i monaci non si vendevano, e il denaro era scarso. Perciò fu costretto, dopo appena una settimana, a mandarlo nei monasteri a lavorare per procurarsi il cibo. Naturalmente, fu una dura prova per padre Giuseppe. Ma “l’obbedienza vale più del sacrificio” (1Sam 15,22). Non si lamentò né disse: “Ecco, sono venuto da Cipro per la preghiera, e ora mi mandi a lavorare nei campi. Se volevo questo, sarei rimasto dov’ero.” Al contrario, accettò con prontezza la difficile decisione del padre spirituale, tanto era grande la fiducia che riponeva in lui.

Così, fino al 1953 circa, andava per i monasteri e lavorava nei giardini, nella raccolta, nei campi, e raramente vedeva il suo starets. Ma aveva compreso bene il senso dell’insegnamento del padre Giuseppe, e lo seguiva con attenzione.

Dovendo relazionarsi con molti monaci e laici, spesso il giovane Giuseppe era ferito nell’anima dalle passioni di chi gli stava attorno. Udiva parole volgari, offensive, persino blasfeme. Questo, insieme al disordine e alle difficoltà dei lavori quotidiani, lo stancava molto. Ma ogni volta che la sua pazienza era al limite, anche se non ne parlava a nessuno, riceveva una lettera dal suo starets. Raccontava: “Già solo il fatto di prendere in mano quella lettera produceva in me un cambiamento. Tutta l’angoscia scompariva, e trovavo la pace. Ma questo cambiamento non veniva da me, lo sentivo: era un’azione che veniva da fuori. Spesso nemmeno aprivo la lettera. Bastava averla ricevuta. Quando, dopo qualche giorno, la leggevo, trovavo in essa una descrizione precisa dello stato in cui mi trovavo. Lo starets spiegava la causa, l’origine, la mia negligenza o l’incontro che aveva provocato quel turbamento. Tutto si dileguava. E io capivo: egli sapeva tutto di me e sicuramente pregava per me”.»

L’11 aprile 1948 fu tonsurato nel grande schema con il nome di Giuseppe.

Nell’agosto 1949, padre Giuseppe tornò dallo skit di sant’Anna per la festa patronale della Dormizione della Theotokos. Raccontava che il 19 agosto, dopo pranzo, si stava dirigendo verso la sua cella, quando lo starets lo fermò, gli strinse la mano e sorridendo gli disse:

– Oggi ti manderò un pacchetto. Fa’ attenzione a non perderlo!

Padre Giuseppe non capì cosa intendesse e, quando si svegliò per il suo consueto vegliare notturno, se ne dimenticò.

Raccontava:

«Non ricordo come iniziai la preghiera, ma so che bastarono poche invocazioni del Nome di Cristo, e il mio cuore si riempì d’amore per Dio. All’improvviso questo amore crebbe a tal punto da non permettermi più di pregare: ero colmo di stupore per la sovrabbondanza di quell’amore. Volevo abbracciare e baciare tutta l’umanità e il creato intero, mentre allo stesso tempo mi consideravo inferiore a ogni creatura. Ma la pienezza e la fiamma del mio amore erano rivolte a Cristo, che sentivo vicino, senza però vederlo, per potermi gettare ai suoi piedi. Avevo come un’intuizione: era la grazia dello Spirito Santo, il Regno dei cieli dentro di me, come dice il Signore. E dicevo: “Signore mio, che tutto resti così, non desidero altro.” Questo durò a lungo. Poi tornai al mio stato consueto. Attendevo con ansia il momento in cui avrei potuto correre dallo starets e chiedergli cosa fosse accaduto.

Il 20 agosto, con la luna piena, andai da lui. Stava passeggiando davanti alla sua cella. Appena mi vide, sorrise e, prima che potessi fargli il metanoia (inchino), mi disse:

– Hai visto quanto è dolce il nostro Cristo? Hai compreso con l’esperienza quello che tanto mi chiedevi? Ora sforzati per fare tua questa grazia, e che non ti sia rubata dalla negligenza.

Mi gettai ai suoi piedi e con lacrime gli dissi:

– Ho visto, starets, io indegno di ogni creatura, ho visto la grazia e l’amore di Cristo, e ora comprendo l’audacia dei santi padri e la potenza della preghiera.

Quando gli raccontai tutto nei dettagli e gli chiesi perché fosse accaduto, egli, per umiltà, non volle parlarne e rispose:

– Dio ha avuto misericordia di te e ti ha mostrato in anticipo la sua grazia, perché tu non dubiti delle parole dei santi padri e non ti scoraggi.»

Da quel momento padre Giuseppe comprese il profondo senso della preghiera per gli altri: “Padre, prega anche per me! Ricordami nelle tue preghiere!” Non era più una semplice formula: il padre spirituale mandava davvero la grazia al suo discepolo.

Dopo il 1953, quando la povertà e l’instabilità post-bellica si placarono, padre Giuseppe poté finalmente vivere stabilmente accanto al suo starets, come tanto desiderava.

All’inizio abitava nella cella riservata a padre Efrem, che veniva lì per celebrare la Divina Liturgia. Due o più volte alla settimana non aveva nemmeno dove dormire. Ma lo starets risolse il problema donandogli la sua cella, dopo essersene costruita una nuova a circa 200 metri di distanza, nel deserto.

La sua formazione spirituale presso lo starets durò fino alla beata morte di quest’ultimo, nel 1959.

Dopo la morte del suo padre spirituale, padre Giuseppe si ritirò per un breve periodo nel deserto, poi divenne egli stesso guida spirituale per molti monaci. Fu fondatore e anziano spirituale di una fraternità monastica nel Nuovo Skit, e visse anche nel monastero di Koutloumousiou e nella cella dell’Annunciazione a Karyes, dipendente da Simonopetra.

Nel 1989, per decisione del Sacro Kinot del Monte Athos e con la benedizione del Patriarcato Ecumenico, fu incaricato della rinascita del monastero di Vatopedi. Grazie agli sforzi del padre Giuseppe e della sua fraternità, la santa Lavra di Vatopedi fu restaurata in poco tempo da uno stato di degrado materiale e spirituale.

Padre Giuseppe condusse anche un’intensa attività letteraria, lasciando in eredità ai suoi figli spirituali e a tutti i fedeli un ricco patrimonio spirituale sotto forma di sedici libri pubblicati. Egli fu un esempio vivente di ascesi e totale dedizione spirituale per chiunque ebbe la fortuna di conoscerlo o di vivere secondo i suoi insegnamenti.

Il beato padre Giuseppe si addormentò nel Signore all’alba del 1° luglio 2009.

Al suo funerale erano presenti 4 vescovi, oltre 10 igumeni di monasteri, decine di sacerdoti e monaci, centinaia di fedeli da tutta la Grecia e Cipro — in totale, più di 1000 persone. La liturgia funebre fu presieduta dal suo discepolo e figlio spirituale, il Metropolita di Limassol Atanasio.

Nel suo elogio funebre, l’igumeno del monastero di Simonopetra, l’archimandrita Eliseo, disse:

«Il padre Giuseppe era una misura, un criterio per tutto il Monte Santo. Era animato dal desiderio di vedere ogni monaco innamorato di Dio. Ogni incontro con lui era un’esperienza spirituale.»

L’archimandrita Efrem, igumeno del monastero di Vatopedi, disse:

«Il padre Giuseppe elevava preghiere infuocate per tutto il mondo sofferente. Pregava non solo per i noti e gli sconosciuti, ma anche per coloro che lo calunniavano. Una mattina lo vidi molto provato, con gli occhi pieni di lacrime. Gli chiesi: “Padre, cosa succede? Perché sei così stanco?” Rispose: “Figlio mio, stanotte ho pregato per molte ore. Ho pianto tanto per colui che mi calunnia. Ho pregato Dio che lo illumini e salvi la sua anima.”»

Subito dopo la morte del padre Giuseppe di Vatopedi avvenne un miracolo: il defunto sorrise. Non morì con il sorriso sulle labbra, ma sorrise dopo la morte! Quando i monaci, per l’ultima volta, scoprirono il suo volto, tutti furono testimoni di quel beato sorriso che si posò sulle sue labbra. Quello splendore dell’eternità sul volto del giusto fu l’ultimo saluto della sua anima santa.


Lascia un commento