Nel presente articolo vorremmo presentare alcuni aspetti riguardanti la commemorazione dei defunti, per comprendere se essa sia esistita nella Chiesa antica o meno. Tuttavia, prima di affrontare il nostro argomento, è bene esaminare il significato delle commemorazioni nella Chiesa Ortodossa, al fine di evitare interpretazioni errate.
La commemorazione consiste nella celebrazione della Divina Liturgia nel giorno della morte di un martire, in suo onore, nella riunione dei membri della Chiesa per venerare un martire, nella celebrazione del suddetto martire, nella preghiera della Chiesa per i defunti e nella menzione del nome del martire durante la Divina Liturgia. In quell’occasione si elevano preghiere per i defunti e tutta la Chiesa celebra e prega il Signore per il riposo dell’anima del martire, secondo le parole del Santo Apostolo Paolo: “Se infatti viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore” (Romani 14,8).
La commemorazione dei defunti (panihida) fa parte della struttura della Liturgia e rappresenta la comunione tra i vivi e i defunti in un unico corpo, nel corpo dell’assemblea [ecclesiale]. Nikos Matsoukas afferma nel suo trattato di Dogmatica: «L’amore di Dio non è sottoposto ad alcuna legge, se l’anima Lo cerca e Lo desidera. La Sua misericordia è infinita. Questo è il significato delle preghiere e delle commemorazioni» (Matsoukas, Teologia Dogmatica e Simbolica, vol. III, p. 547). Le commemorazioni si compiono per i fedeli figli della Chiesa. Anche Andróutsos, nel suo trattato di Dogmatica, afferma: «La conclusione generale dell’insegnamento dei Padri su questo tema è che i morti completamente malvagi e impenitenti non possono trarre alcun beneficio dalle opere di misericordia dei vivi o dalle preghiere della Chiesa» (Andróutsos, Dogmatica, pp. 428-429). Altrove, aggiunge a questo proposito: «… le preghiere offerte per i defunti sono semplici suppliche rivolte alla Divina Misericordia per coloro che si sono addormentati nella fede…» (Andróutsos, Dogmatica, p. 434).
E, infine, egli afferma: «… San Giovanni Damasceno, attirando l’attenzione sul fatto che Dio “vuole che attraverso tutto, tutti riceviamo benefici, sia i vivi che i morti”, mostra che “colui che si adopera per la salvezza del prossimo, in primo luogo ne trae beneficio per sé stesso e poi per il prossimo”. Il fatto che questa spiegazione delle commemorazioni (panichide) sia l’unica corretta, esprimendo lo spirito della Chiesa antica che celebrava la commemorazione dei defunti, è reso evidente dall’uso generale delle commemorazioni stesse. In teoria, la Chiesa Ortodossa insegna che le commemorazioni giovano solo a coloro che si sono pentiti e non hanno commesso peccati gravi, e che non devono essere celebrate per coloro che non si sono pentiti; tuttavia, poiché non è conosciuto lo stato morale di tutti i defunti, nella pratica le commemorazioni si celebrano per tutti…» (Andróutsos, Dogmatica, p. 436).
Le preghiere di supplica per la commemorazione dei defunti non hanno alcun legame con le dottrine dell’apocatastasi, della salvezza universale o con altre simili teorie. Trembélas, nella sua Dogmatica, presenta la concezione dei Padri e della Chiesa, confermando quanto detto sopra: «È dunque chiaro che entrambi i Padri menzionati [ossia Cirillo di Gerusalemme e Giovanni Crisostomo], parlando dei benefici e dell’aiuto che i vivi offrono ai defunti, non intendono che attraverso queste preghiere qualcuno possa essere liberato dalle pene dell’inferno e trasferito dall’inferno al Paradiso, ma che esse costituiscono un conforto e un piccolo aiuto, “che contribuisce a un rafforzamento”, una sorta di illuminazione dell’inferno» (Trembélas, Dogmatica della Chiesa Cattolica Ortodossa, vol. III, ed. Sotír, Atene 2003, p. 412).
Concludendo sulla comprensione delle commemorazioni, citiamo dal libro del padre Seraphim Rose: «In generale, i protestanti ritengono che le preghiere della Chiesa per i defunti siano inconciliabili con la necessità dell’uomo di ottenere la salvezza lavorandola durante la sua vita terrena. “Se possiamo salvarci nella Chiesa dopo la morte, perché dovremmo sforzarci di lottare o di acquisire la fede in questa vita? Mangiamo, beviamo e divertiamoci…”. Ovviamente, nessuno di coloro che hanno applicato questa filosofia mentre erano in vita si è mai salvato grazie alle preghiere della Chiesa dopo la morte, ed è evidente che un simile argomento è del tutto artificiale, persino ipocrita. Le preghiere della Chiesa non possono salvare chiunque, se la persona stessa non desidera la salvezza o non ha lottato per ottenerla durante la sua vita. In un certo senso, potremmo dire che le preghiere della Chiesa o di ogni singolo cristiano per un defunto non sono altro che il risultato del suo modo di vivere…» (Rose, L’anima dopo la morte).
Le anime non si trovano ancora nello stato definitivo. Non è ancora giunta l’ora del Giudizio finale. San Marco Eugenico scrive: «Noi non diciamo né che i giusti godano pienamente già ora dell’eredità loro e di quello stato beato che si sono preparati sin da questa vita, né che i peccatori siano condotti immediatamente dopo la morte alla condanna eterna nella quale saranno tormentati senza fine; ma che entrambe queste cose diventeranno definitive dopo il giorno ultimo del Giudizio e dopo la Risurrezione di tutti gli uomini» (Rose, L’anima dopo la morte; San Marco Eugenico, Seconda Apologia ai Latini).
Quest’ora verrà, dunque, dopo la risurrezione universale. Nell’Apocalisse si menziona:
«Poi vidi un grande trono bianco e colui che vi sedeva sopra. La terra e il cielo fuggirono dalla sua presenza e non ci fu più posto per loro. E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. I libri furono aperti, e fu aperto anche un altro libro, che è il libro della vita; e i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le loro opere. Il mare restituì i morti che erano in esso; la morte e l’Ades restituirono i loro morti; ed essi furono giudicati, ciascuno secondo le sue opere. Poi la morte e l’Ades furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda, cioè lo stagno di fuoco. E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco.» (Apocalisse 20, 11-15).
Gesù Cristo, dopo essere stato ucciso nella carne, «discese e predicò agli spiriti in prigione, i quali un tempo furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava, nei giorni di Noè…» (I Pietro 3, 19-20). L’Apostolo Pietro afferma inoltre: «Per questo è stato annunciato il Vangelo anche ai morti, affinché, giudicati secondo gli uomini nella carne, vivano secondo Dio nello spirito» (I Pietro 4, 6). Perché Cristo «è pronto a giudicare i vivi e i morti» (I Pietro 4, 5).
Lo stesso Signore ha parlato della possibilità della remissione e del perdono dei peccati dopo la morte:
«Perciò vi dico: ogni peccato e ogni bestemmia saranno perdonati agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chi parlerà contro il Figlio dell’Uomo sarà perdonato; ma a chi parlerà contro lo Spirito Santo non sarà perdonato, né in questo secolo, né in quello futuro» (Matteo 12, 31-32).
Dunque, esiste la possibilità del perdono anche nel secolo futuro. Altrimenti, sarebbe stato inutile dirlo.
Osserviamo un’identità tra questo passo e la parola di San Giovanni Crisostomo: «Le vedove possono salvare dalla morte [il loro marito defunto] non solo nel presente, ma anche nel futuro, standogli accanto e piangendo [per il perdono dei suoi peccati]» (Giovanni Crisostomo, Omelia XXI sugli Atti degli Apostoli, PG 60, p. 169). Entrambe queste affermazioni sottintendono la remissione dei peccati anche oltre la tomba, eccetto il peccato di bestemmia contro lo Spirito Santo. La stessa interpretazione la dà anche San Marco Eugenico:
«… dal Vangelo di Matteo, in cui il Salvatore dice che “non saranno perdonati i peccati a colui che bestemmia contro lo Spirito Santo, né in questa vita, né in quella futura”, perché vi è remissione dei peccati anche nella vita futura» (Rose, L’anima dopo la morte; Marco Eugenico, Prima Apologia ai Latini, p. 319).
Le commemorazioni nel Vecchio Testamento
Le commemorazioni erano presenti nella pratica del popolo di Dio anche nel Vecchio Testamento. Vediamo Davide e coloro che erano con lui digiunare per il defunto Saul, per Gionata, ma anche per tutto il popolo caduto in battaglia:
«Allora Davide afferrò le sue vesti e le stracciò; lo stesso fecero tutti gli uomini che erano con lui. E piansero, si lamentarono e digiunarono fino a sera per Saul, per suo figlio Gionata, per il popolo del Signore e per la casa d’Israele, che erano caduti di spada» (2 Re 1, 11-12).
È comprensibile lamentarsi e piangere, ma perché digiunare per i morti? Il popolo ai tempi di Neemia digiunò e si lamentò per le proprie iniquità, ma anche per quelle dei loro padri:
«Il ventiquattresimo giorno di questo mese si radunarono tutti i figli d’Israele, vestiti di sacco e con la testa cosparsa di cenere, per digiunare. E separandosi quelli di stirpe israelita da tutti gli stranieri, vennero a confessare i loro peccati e le iniquità dei loro padri. Poi, stando al loro posto, si lesse per un quarto del giorno dal libro della legge del Signore loro Dio, e per un altro quarto del giorno confessarono i loro peccati e si prostrarono davanti al Signore loro Dio» (Neemia 9, 1-3).
A chi si riferisce, dunque, la parola «padri»?
Nello stesso capitolo dello stesso libro si mostra chiaramente a chi si riferiscono le parole di Giosuè, di Kadmiel e degli altri che parlarono dal podio dei leviti e pregarono davanti al popolo:
«Tu vedesti la tribolazione dei nostri padri in Egitto e udisti il loro grido presso il Mar Rosso… Tu operasti segni e prodigi davanti al Faraone, contro tutti i suoi servi e contro tutto il popolo del suo paese… Ma i nostri padri si ostinarono e indurirono la loro cervice; non ascoltarono i Tuoi comandamenti… Persino quando si fecero un vitello di metallo fuso e dissero: “Ecco il tuo dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto!” e si abbandonarono a grandi bestemmie contro di Te… appena si furono tranquillizzati, ripresero a fare il male davanti a Te. Allora Tu li abbandonasti di nuovo in mano ai loro nemici, affinché li dominassero…» (Neemia 9).
È dunque chiaro che, dicendo «padri», non si riferiscono ai loro genitori ancora in vita, ma alle generazioni precedenti: a quella che fu liberata dalla schiavitù del Faraone e a quella successiva. Per questo la preghiera pubblica si concentra sul fatto che essi peccarono e non rimasero fedeli, da cui derivarono tutte le loro sciagure.
Una testimonianza ancora più chiara si trova nel libro dei Maccabei: Giuda Maccabeo offrì un sacrificio per coloro che erano caduti in battaglia, per l’espiazione dei loro peccati:
«…E raccogliendo denaro secondo il numero degli uomini che erano con lui, inviò duemila dramme d’argento a Gerusalemme, affinché fosse offerto un sacrificio per il peccato. Ottima e pia fu la sua decisione per la speranza nella risurrezione dei morti! Perché, se non avesse avuto speranza che coloro che erano caduti sarebbero risorti, sarebbe stato vano e ridicolo pregare per i morti. E vide che per coloro che erano morti con pietà, un dono eccellente era stato preparato. Perciò, santo e pio fu il suo pensiero, poiché offrì un sacrificio espiatorio per i defunti, affinché fossero liberati dal peccato» (2 Maccabei 12, 43-46).
A questo punto, è bene sottolineare che questo libro appartiene al canone delle Sacre Scritture, così come ci è stato trasmesso dalla Chiesa. In particolare, il Canone Apostolico 85 lo annovera tra i libri santi e venerabili della Sacra Scrittura. Non abbiamo dunque alcun motivo per respingerlo. Anzi, vale la pena menzionare un dettaglio molto importante: l’Apostolo Paolo, nella Lettera agli Ebrei 11, 35, scrive:
«Le donne recuperarono per risurrezione i loro morti e altri furono martirizzati non avendo accettato la loro liberazione al fine di ottenere una risurrezione migliore» (Ebrei 11, 35).
Nel Vecchio Testamento, il martirio è menzionato solo nel libro dei Maccabei (2 Maccabei 6, 18.28), dove si parla anche delle commemorazioni per i defunti. L’Apostolo Paolo ha attinto proprio dal libro dei Maccabei le informazioni riguardanti coloro che morirono tra tormenti, facendo riferimento a essi in Ebrei 11, 35. Se l’Apostolo Paolo riconosce la validità di questa scrittura veterotestamentaria, perché non dovrebbero essere valide anche le commemorazioni menzionate nella sua epistola, che trovano la loro origine proprio in questo libro?
Se tale pratica fosse stata errata, sarebbe stata condannata dalla stessa Sacra Scrittura, e Dio avrebbe punito in modo esemplare coloro che la praticavano, come ha fatto in altre occasioni. Tuttavia, non esiste alcun passo biblico in cui Dio condanni questa pratica. Al contrario, leggiamo:
«Se infatti non avessero avuto speranza che i caduti sarebbero risorti, sarebbe stato vano e ridicolo pregare per i morti» (2 Maccabei 12, 44),
«cosa molto buona e pia in vista della risurrezione dei morti» (2 Maccabei 12, 43).
Non solo viene lodata l’azione di Giuda Maccabeo, ma la risurrezione viene posta come fondamento della commemorazione dei defunti. Se non esistesse la fede nella risurrezione, e dunque nel giudizio e nella ricompensa, le preghiere d’intercessione per i defunti sarebbero inutili.
Giuda Maccabeo, come afferma il testo sacro, «in vista della risurrezione dei morti, raccolse denaro… e lo inviò a Gerusalemme affinché fosse offerto un sacrificio per il peccato» (2 Maccabei 12, 43).
Qui sorge una domanda: supponiamo che Giuda e i suoi seguaci si fossero sbagliati e avessero compiuto qualcosa di estraneo alla fede giudaica. Ma il centro della religione ebraica, Gerusalemme, il luogo in cui inviò l’offerta raccolta per compiere il sacrificio espiatorio a beneficio dei defunti, si sbagliava anch’esso? Non si trovò nessuno a impedire un’opera ingannevole intrapresa da Giuda e dai suoi compagni?
Le commemorazioni nel Nuovo Testamento
Nel Nuovo Testamento vediamo l’Apostolo Paolo pregare per Onisiforo, che si era addormentato nel Signore:
«Il Signore gli conceda di trovare misericordia presso il Signore in quel giorno» (2 Timoteo 1, 18).
Alcuni sostengono che Onisiforo non fosse morto. Tuttavia, nel contesto di questa lettera, l’espressione “quel giorno”, che si riferisce al Giudizio, riguarda chi ha lasciato questo mondo. Infatti, Paolo dice di sé stesso in un altro passo:
«Il tempo della mia partenza è vicino… ormai mi è preparata la corona della giustizia, che il Signore, giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno» (2 Timoteo 4, 6-8).
Dunque, nel contesto della stessa lettera, colui che attende “quel giorno” deve prima “lasciare questo mondo”.
In secondo luogo, il fatto che Onisiforo fosse già morto emerge anche dal modo in cui l’Apostolo Paolo lo menziona separatamente rispetto alla sua famiglia:
«Il Signore conceda misericordia alla casa di Onisiforo» (2 Timoteo 1, 16).
«Il Signore gli conceda di trovare misericordia presso il Signore in quel giorno» (2 Timoteo 1, 18).
Se Onisiforo fosse stato ancora in vita, Paolo avrebbe potuto semplicemente dire:
«Il Signore conceda che in quel giorno Onisiforo e la sua casa trovino misericordia presso il Signore».
Inoltre, Paolo distingue chiaramente i suoi auspici: uno riguarda il presente, l’altro il futuro. Alla fine della lettera, infatti, si riferisce di nuovo solo alla famiglia:
«Saluta Prisca e Aquila e la casa di Onisiforo» (2 Timoteo 4, 19).
Le commemorazioni nell’epoca post-apostolica
a) Tertulliano († 220) ci informa della pratica di una vedova cristiana che prega per il riposo dell’anima del marito defunto:
«Infatti ella prega per la sua anima, chiede per lui refrigerio nel frattempo e partecipazione alla prima risurrezione, e offre sacrifici annuali nel giorno della sua dormizione (Εnim vero et pro anima ejus orat, et refrigerium interim adpostulat ei, et in prima resurrection consortium, et offert annuis diebus dormitionis eju)» (Tertulliano, De monogamia 10, PL 2,942C – intorno agli anni 210-211).
Tertulliano fa riferimento in particolare alla commemorazione annuale della morte dei fratelli defunti, ma anche alla celebrazione della Divina Eucaristia per loro:
«Offriamo sacrifici per i defunti e per i loro anniversari nel giorno annuale» (Tertulliano, De corona 3, PL 2,79B, intorno all’anno 208 d.C.).
Nel Martirologio di Perpetua, scritto che probabilmente gli appartiene, Tertulliano menziona la preghiera perseverante della martire per la salvezza dell’anima di suo fratello Dinocrate, morto a sette anni senza battesimo. I frutti di questa preghiera erano salvifici per lui, poiché dopo la morte si trovava nei tormenti, essendo morto impreparato (J.B. Robinson, The Passion of S. Perpetua, Cambridge University Press, 1891, p. 204).
b) Nel Martirologio di San Policarpo (II secolo) si descrive una commemorazione dei defunti. Vi si dice che nel luogo in cui erano state sepolte le reliquie dei martiri, i fedeli si sarebbero radunati «con gioia e letizia» per celebrare «il giorno del loro martirio, che è il loro giorno di nascita, in memoria di coloro che hanno già combattuto la buona battaglia e come esempio di lotta e preparazione per coloro che verranno».
«Così, dopo aver raccolto le sue ossa, più preziose delle gemme e più pure dell’oro, le abbiamo deposte nel luogo che loro si addiceva. Radunandoci lì, per quanto ci sarà possibile, con gioia e letizia, il Signore ci conceda di celebrare il giorno della nascita del nostro martire, per ricordare la memoria di coloro che hanno combattuto prima di noi e come esempio di lotta e preparazione per quelli che verranno» (P. Papaevanggélou, I Padri Apostolici, vol. IV).
Questa era la consuetudine della Chiesa, tanto che era stato stabilito qualcuno che annotasse i nomi dei martiri e la data della loro morte, affinché la loro commemorazione fosse celebrata secondo l’uso stabilito. Ai tempi di San Cipriano di Cartagine, un credente di nome Tertillo si prendeva grande cura dei martiri e registrava con precisione il giorno della loro lotta, affinché nel giorno della commemorazione fosse celebrata la Divina Liturgia e il loro nome fosse ricordato nel posto assegnato (Cipriano, Epistola 12,2).
c) Nel testo apocrifo Atti di Giovanni (II secolo), di origine asiatica, si riporta la testimonianza di una celebrazione eucaristica presso la tomba della cristiana Drusiana, il terzo giorno dopo la sua morte:
«Il giorno seguente, Giovanni venne di buon mattino con Andronico e i fratelli alla tomba, essendo il terzo giorno dalla morte di Drusiana, per spezzare il pane lì… E dopo aver detto queste cose, Giovanni pregò, prese il pane e lo pose sulla tomba per spezzarlo. E disse: “Glorifichiamo il Tuo Nome, o Tu che ci hai ricondotti dalla perdizione e dall’inganno crudele”. E così, dopo aver pregato e reso gloria, si allontanò dalla tomba dopo aver comunicato tutti i fratelli con l’Eucaristia del Signore» (P. Skaltzís, Η υπέρ των Νεκρών φροντίδα της Αρχαίας Εκκλησίας [La cura per i morti della Chiesa antica], Biblioteca Pastorale 19, pp. 118-121).
d) Anche Origene († 254) ci informa dell’esistenza delle preghiere per i defunti nella sua epoca:
«E se Paolo, ancora nel corpo, ritenne di essere stato rapito in spirito a Corinto, non dobbiamo disperare che anche i beati, dopo essere usciti [dal corpo], possano giungere in spirito nelle chiese, forse ancor più di chi è ancora nel corpo. Per questo non dobbiamo disprezzare le preghiere che si fanno in esse, poiché hanno un significato particolare per coloro che vi si radunano con sincerità» (Origene, PG 11, 556 A).
e) Anche San Cipriano († 258), vescovo di Cartagine, raccomanda ai sacerdoti di non trascurare l’antica usanza della Chiesa di commemorare la morte dei fedeli, specialmente dei martiri. Egli sottolinea che con l’offerta della Divina Eucaristia il sacerdote stesso si purifica. Ai suoi tempi, la commemorazione dei defunti nella Divina Liturgia era ormai una pratica liturgica consolidata (P. Skaltzís, Η υπέρ των Νεκρών φροντίδα της Αρχαίας Εκκλησίας [La cura per i morti della Chiesa antica], Biblioteca Pastorale 19, pp. 118-121).
f) San Cirillo di Gerusalemme, nella quinta Catechesi Mistagogica (pronunciata nell’anno 348 d.C.), testimonia questa pratica della Chiesa antica ai suoi tempi, affermando: “[Prima ha luogo il culto incruento e la Divina Eucaristia,] poi preghiamo per i Santi Padri e per i Vescovi addormentati, e in generale per tutti coloro che si sono addormentati tra noi. Facciamo questo perché crediamo che le anime di coloro per i quali si eleva la preghiera di intercessione ricevano grande beneficio nel momento del Sacrificio tanto tremendo e santo che ora si offre. Voglio convincervi di ciò con un esempio. So che molti dicono: ‘A che giova all’anima, quando lascia il mondo carica di peccati, o anche senza peccati, ed è commemorata nella Divina Liturgia?’. Se però un re manda in esilio alcuni che gli hanno arrecato offesa, ma poi gli altri intrecciano una corona e gliela offrono per addolcirlo nei confronti degli esiliati, non si intenerirebbe forse il suo cuore e non allevierebbe la pena? Allo stesso modo, anche noi offriamo a Dio preghiere di intercessione per i defunti e, sapendo che erano peccatori, non intrecciamo una corona, ma offriamo Cristo stesso, che si è sacrificato per i nostri peccati, chiedendo misericordia per loro e per noi al Dio amico degli uomini” (G. Mauromátis, Catechesi di San Cirillo di Gerusalemme, vol. II, pp. 560-561).
g) San Giovanni Crisostomo si riferisce molte volte alla commemorazione dei defunti. Egli considera che morti e vivi non si distinguano nella loro necessità di preghiera: “Come preghiamo per i vivi, così possiamo pregare per i morti” (Giovanni Crisostomo, Commento all’Epistola ai Filippesi, PG 62, 204), e attribuisce l’inizio della “commemorazione di coloro che sono passati da questa vita” allo Spirito Santo, che ha ispirato gli Apostoli: “Non invano si compiono le offerte per i defunti, non invano le preghiere insistenti, non invano le elemosine; tutte queste cose lo Spirito le ha comandate, volendo che ci aiutiamo gli uni gli altri” (Giovanni Crisostomo, PG 60, 170). In un altro passo afferma: “Non senza uno scopo preciso gli Apostoli hanno stabilito che durante i Tremendi Misteri si compia la commemorazione dei cristiani defunti. È noto che questo atto reca loro grande beneficio. Quando il popolo e la moltitudine dei sacerdoti stanno con le mani levate dinanzi al tremendo Sacrificio, come sarebbe possibile che non persuadano con forza Dio a favore dei defunti?” (Giovanni Crisostomo, Omelia III ai Filippesi, PG 62, 204). Commentando la Prima Lettera ai Corinzi dell’Apostolo Paolo, dice: “Se infatti i figli di Giobbe furono purificati dal sacrificio del loro padre [Gb 1,5], perché dubiti che, anche quando noi offriamo sacrifici per i defunti, essi ne ricevano conforto? Poiché Dio si compiace quando gli uni pregano per gli altri. E questo lo ha mostrato Paolo dicendo: ‘Affinché questo dono, ottenuto per noi grazie alla preghiera di molti, sia occasione di ringraziamento da parte di molti per noi’ [2 Cor 1,11]. Perciò, non smettiamo di aiutare i defunti e di elevare preghiere per loro” (Giovanni Crisostomo, Omelia 41 alla Prima Lettera ai Corinzi, PG 61, 361).
Perché è escluso che San Giovanni Crisostomo abbia attinto informazioni sulle commemorazioni dei defunti dalle Costituzioni Apostoliche?
San Giovanni Crisostomo, riferendosi a quanto sopra, non aveva bisogno di ricorrere al libro che porta una firma ingannevole, chiamato Costituzioni Apostoliche, scritto nel IV secolo, la cui autenticità era accolta con riserva dalla Chiesa antica (Enciclopedia di Religione e Morale, vol. IV (1964), col. 1182). Il fatto che questo Padre della Chiesa [non utilizzando le Costituzioni Apostoliche come fonte] non si sia ingannato riguardo alla questione se si tratti o meno di uno scritto apostolico, risulta evidente dal fatto che la Chiesa non ha accolto questo testo, poiché esso non è menzionato in alcuno dei canoni promulgati durante la vita di Crisostomo: né nel Canone 60 del Concilio di Laodicea (360 d.C.), né nella Lettera 39 di Sant’Atanasio il Grande (367 d.C.), né negli scritti di San Gregorio Teologo (fino al 390 d.C.), né in quelli di Amfilochio di Iconio (395 d.C.), né nel Canone 24/32 del Concilio di Cartagine (419 d.C.). L’intero periodo in cui visse Crisostomo respinge la canonicità di questo scritto (P. Boúmis, I canoni della Chiesa sul Canone della Sacra Scrittura, Ed. Apostolikí Diakonía, Atene 1991², pp. 67-68, 207).
Più tardi, le Costituzioni Apostoliche saranno condannate dal Sinodo Quinisesto perché nel testo sono stati riscontrati elementi corrotti, come mostra San Nicodemo Aghiorita nel Pidalion, al Canone II:
“… in alcuni degli antichi scritti sono stati aggiunti dagli eterodossi certi insegnamenti falsi e alieni dalla pietà della Chiesa, oscurando la bellezza conveniente delle divine dottrine. Per questo motivo abbiamo rigettato tali Costituzioni, per l’edificazione e la salvaguardia del gregge cristiano, non ritenendo in alcun modo accettabili i frutti della menzogna eretica, né ponendoli accanto alla vera e integra dottrina degli Apostoli…”
(Nicodemo Aghiorita, Pidalion, edizione greca, p. 220).
E San Nicodemo commenta:
“Le Costituzioni Apostoliche attribuite a Clemente, poiché sono state corrotte dagli eterodossi in alcune parti a danno della Chiesa, vengono rigettate per la sicurezza dei cristiani”
(Nicodemo Aghiorita, Pidalion, edizione greca, p. 221).
Le Costituzioni Apostoliche costituiscono una compilazione, ossia un’opera composta da frammenti di altre fonti; non si tratta di un testo originale, ma raccoglie “elementi già utilizzati [in altri scritti]”. Stefanídis in nessun punto afferma che le Costituzioni Apostoliche siano state utilizzate da San Giovanni Crisostomo come fonte. In nessuna storia ecclesiastica affidabile né in alcuna patrologia della bibliografia ellenofona le Costituzioni Apostoliche sono considerate una fonte per Crisostomo.
Trembélas distingue nettamente le Costituzioni Apostoliche dagli scritti di San Giovanni Crisostomo, affermando:
“Tra i monumenti liturgici menzionati nel tipico antiocheno, provenienti dalla tradizione di Antiochia o ad essa collegati, oltre alle testimonianze raccolte dagli scritti del divino Crisostomo, vi è anche la liturgia contenuta nelle Costituzioni Apostoliche, che è altresì chiamata Clementina”.
(P. Trembélas, ‘Principi e carattere del culto cristiano’, vol. II (Tipici liturgici d’Egitto e d’Oriente), Ed. Sotír, Atene 1993³, p. 106).
Stefanídis afferma riguardo a questa liturgia antiochena:
“La liturgia di Antiochia è presente nel voluminoso libro delle Costituzioni Apostoliche” (Stefanídis, p. 308).
Questa liturgia è detta anche Clementina, secondo Trembélas, che aggiunge:
“L’autore della liturgia clementina ha redatto quest’opera raccogliendo elementi preesistenti già in uso e formule liturgiche che non furono introdotte da lui, ma erano impiegate prima di lui nel corso dell’evoluzione liturgica. L’opera di questo compilatore non ha rappresentato un fattore nuovo e originale in tale sviluppo” (P. Trembélas, op. cit., p. 111).
Qual è dunque la fonte delle Costituzioni Apostoliche?
“Le Costituzioni Apostoliche rappresentano la fonte più importante e completa del culto cristiano nei primi quattro secoli. La loro importanza risiede nel fatto che l’anonimo compilatore ha raccolto il materiale riguardante l’intero culto cristiano. Questo materiale è stato suddiviso (intorno all’anno 380 d.C.) in otto libri di grande interesse, di cui l’ottavo sembra strettamente legato alla Tradizione Apostolica di Ippolito di Roma”
(G.N. Fílias, ‘Liturgica’, vol. I, Ed. Grigoris, Atene 2006, p. 261).
Ecco dunque menzionato un autore ecclesiastico del II-III secolo da cui l’autore delle Costituzioni Apostoliche ha attinto le sue informazioni. Non sono quindi le Costituzioni Apostoliche, ma Ippolito e Tertulliano che parlano delle commemorazioni dei defunti come Tradizione Apostolica, come già evidenziato sopra.
Trembélas scrive:
“Riguardo alla commemorazione dei defunti… il divino Crisostomo sottolinea che essa… è stata stabilita dagli Apostoli… Anche Agostino, come Tertulliano, considera che le usanze praticate in tutta la Chiesa, come il battesimo dei bambini… le preghiere per i defunti… ecc., siano Tradizioni Apostoliche”
(P. Trembélas, ‘Dogmatica della Chiesa Ortodossa Cattolica’, vol. I, Ed. Sotír, Atene 1997³, p. 134).
E il professore Hristos Krikónis aggiunge:
“Nella Tradizione Apostolica di Ippolito [170-235 d.C.] sono contenute numerose disposizioni relative alla vita della Chiesa, come quelle sullo stato e l’ordinazione del clero, sull’Eucaristia, sul Battesimo, sul digiuno, sulle commemorazioni dei defunti, ecc., le quali sono considerate trasmesse dagli Apostoli”
(H. Krikónis, ‘L’Autorità della Chiesa, il valore della sua Tradizione e l’Insegnamento dei Padri’, University Studio Press, Salonicco 1998, p. 99).
Possiamo dunque affermare che, come gli altri Padri, anche San Giovanni Crisostomo attinge i suoi insegnamenti dalla fonte autentica della fede cristiana, ossia dalla sua Santa Tradizione (la Santa Memoria della Chiesa), che non si limita solo alla Sacra Scrittura, né esclusivamente agli scritti dei Padri o alle decisioni dei Concili, ma comprende tutte queste realtà in stretta connessione con la Tradizione non scritta, alla quale fa riferimento San Basilio il Grande nella sua lettera a Sant’Amfilochio, Sul Santo Spirito, dove afferma:
“D’altronde, ritengo che il fatto di insistere sulle tradizioni non scritte sia apostolico. «Vi lodo – dice l’Apostolo – perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni che vi ho trasmesso». E ancora: «Mantenete le tradizioni che avete ricevuto sia con la parola che con la nostra lettera» (2 Tessalonicesi 2,15). Una di queste tradizioni è anche quella presente. Essa è stata tramandata da coloro che l’hanno stabilita all’inizio e, col tempo, il suo uso si è diffuso e si è radicato nelle Chiese” (San Basilio il Grande, Scritti, Parte III, Sul Santo Spirito. Corrispondenza (Epistole), PSB 12, Ed. IBMBOR, Bucarest 1988, p. 84).
San Basilio il Grande considera la conservazione della Tradizione non scritta come un Insegnamento Apostolico, perciò afferma che ignorare o eliminare questa tradizione porterebbe all’indebolimento della fede:
“In realtà, è la fede ad essere attaccata, e lo scopo comune di tutti i nemici della sana dottrina è quello di scuotere il fondamento e la tradizione apostolica. Per questo motivo, come se fossero debitori riconoscenti, invocano le prove tratte dalle Scritture e respingono la testimonianza non scritta dei Padri, considerandola priva di valore” (San Basilio il Grande, Scritti, Parte III, Sul Santo Spirito. Corrispondenza (Epistole), PSB 12, Ed. IBMBOR, Bucarest 1988, p. 40).
In un altro passaggio, egli afferma di non limitarsi solo a ciò che è scritto nel Vangelo e nelle lettere apostoliche, ma di selezionare anche altri elementi dalla Tradizione non scritta, i quali hanno grande valore per il mistero della giusta adorazione di Dio:
“Non ci accontentiamo solo delle parole menzionate dall’Apostolo o dal Vangelo (e perciò) prima e dopo l’Eucaristia pronunciamo anche altre formule, perché sappiamo dall’insegnamento non scritto che esse hanno grande potere nella celebrazione del mistero” (San Basilio il Grande, Scritti, Parte III, Sul Santo Spirito. Corrispondenza (Epistole), PSB 12, Ed. IBMBOR, Bucarest 1988, p. 79).
Conclusioni:
a) San Giovanni Crisostomo non ha appreso le commemorazioni per i defunti dalle Costituzioni Apostoliche. Le commemorazioni dei defunti risalgono a un’epoca ben precedente rispetto al tempo in cui furono redatte le Costituzioni Apostoliche.
b) La Tradizione Apostolica non si esaurisce nel testo delle Costituzioni Apostoliche, ma esiste anche una Tradizione Apostolica non scritta.
c) La commemorazione dei defunti è stata istituita dallo Spirito Santo, come afferma San Giovanni Crisostomo.
Il professore Feidás conferma l’antichità della tradizione delle commemorazioni senza fare alcun riferimento alle Costituzioni Apostoliche:
“L’onore reso dai cristiani ai martiri presso le loro tombe derivava dalla profonda convinzione che, anche dopo la morte, esisteva un legame stretto tra l’anima dei martiri e le loro reliquie, che si trovavano sulla terra” (Eusebio, Storia Ecclesiastica, V, 1; Tertulliano, De resur. carnis, 3; Minucio Felice, Octav., 34,1).
La celebrazione della divina Eucaristia sulla tomba del martire, nel giorno della sua nascita al cielo, era dunque legata alla convinzione che l’anima del martire partecipasse al convito spirituale comune (Origene, Περί ευχής [Sulla preghiera], 31; Cipriano, Epist. 1, 2).
D’altronde, la divina Eucaristia era spesso celebrata anche sulle tombe dei semplici cristiani, nella fede che anche l’anima del defunto partecipasse ai santi misteri e alla grazia che da essi scaturiva (Tertulliano, De pudicitia, 11; De corona, 3; De exhort. castitatis, 11). Su questa tradizione si fondarono anche le commemorazioni per i defunti” (V.I. Feidás, «Εκκλησιαστική Ιστορία – Απ’ αρχής μέχρι την Εικονομαχία» [Storia Ecclesiastica – Dalle origini fino all’iconoclastia], vol. I, Atene 20023, p. 287).
